Medea e Giasone sposi nella grotta di Macride
"Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio si legge che, a seguito delle suppliche di Medea alla regina Arete, quest’ultima perora la sua causa a letto, di notte, parlando con il marito Alcinoo; così il re le rivela che l’indomani renderà pubblica la sua decisione: se Medea sarà ancor vergine, la consegnerà ai Colchi affinché la riportino a oriente da suo padre, mentre se avrà già sposato Giasone, ella sarà libera di stare con il marito. Mentre re Alcinoo dorme, Arete avvisa di questo, con un messaggio, Giasone, che decide perciò di sposare Medea seduta stante.
Subito gli Argonauti preparano il matrimonio e il letto nuziale “nell’antro divino dove viveva un tempo Macride, la figlia del saggio Aristeo” (Ap. IV, 1132-1133). “Qui stesero il grande letto e sopra gettarono il vello d’oro fulgente” (Ap. IV, 1141-2).
Forse, ai tempi della compilazione delle Argonautiche, esisteva ancora una pittura murale protostorica in cui la dea Medea e l’eroe Giasone, entrambi in aspetto umano, si univano su di un vello di montone dal colore giallo ocra (uno dei tre colori base delle pitture parietali di Santorino e di Creta). Sicuramente questo vello era completo della testa dell’animale, che sfoggiava un grande corno arcuato. La dea doveva rappresentare la Dea Luna, l’eroe doveva essere un dio del cielo e la pelle di montone era simbolo delle dense nubi temporalesche portatrici della pioggia e della fertilità dei campi che procedono dalla falce di luna, rappresentata a sua volta dal corno dell’ariete. A volte, di notte, quando i temporali sono particolarmente potenti, i fulmini sono così enormi e numerosi da creare un effetto luminoso eccezionale sulla superficie inferiore della massa nuvolosa, tanto da farla brillare come “oro fulgente”. Altre volte, al mattino o alla sera, il sole basso sull’orizzonte tinge di uno splendido colore giallo oro la faccia inferiore dello strato di nuvole che si presenta ad occhi umani come un fiabesco “tappeto volante” fatto di una pelle animale. Si spiegherebbe così il significato del “Vello d’Oro”, i resti cioè del mitico montone mandato dal cielo anni addietro da Zeus per salvare i suoi due figli Frisso ed Elle.
Ma prima che intervenisse il nuovo culto di Zeus, il Vello d’oro doveva essere legato al mito dell’ariete che nasce dal calderone di Medea (v. capitolo precedente).
L’iconografia di quest’ultimo mito (non attestato) è sopravvissuta nelle rappresentazioni vascolari del VI secolo a.C., in cui però il montone viene inserito nel contesto dell’altro mito, questo sì giunto fino a noi, (v. la mia citazione di “I Miti Greci” di R. Graves nel capitolo precedente) in cui si parla dell’inganno di Pelia da parte di Medea che ringiovanisce un montone. Magnifica a questo proposito la scena di Medea che ringiovanisce il vecchio ariete facendolo uscire nuovamente vivo e vegeto dal calderone, davanti al re Pelia e alle sue figlie, nell’anfora attica a collo distinto, da Vulci (fig. 52), 510 a.C. (conservata al British Museum di Londra). Ed è ancora più interessante la pittura vascolare del Pittore di Copenhagen (hydria attica da Vulci, 470 a.C., British Museum E 163) con Medea che fa uscire un montone dal calderone, al cospetto di un uomo sbarbato dai capelli bianchi, che potrebbe essere Pelia ma anche Giasone anziano che assiste al proprio ringiovanimento in forma di ariete (fig. 53).
Mi pare evidente che non c’era mutamento di significati nel passaggio dall’iconografia del giovane uomo che esce dal calderone (olpe etrusca da Cerveteri, 630 a.C., v. prec. cap.) a quella del giovane montone che esce dal calderone dei vasi del V secolo; se nel vaso più antico il giovane uomo era Giasone, in quelli più recenti il montone era l’epifania animale di Giasone.
In un cratere a calice del 350 a.C. conservato al Louvre, c’è una scena a figure rosse in cui Giasone presenta a re Pelia il Vello d’oro (fig. 54); qui l’eroe è rappresentato imberbe e completamente nudo, salvo un mantello che non copre nulla e un cappello rotondo, e tiene in una mano la lancia, mentre sostiene con l’altra la pelle dorata del montone, come se questa fosse il travestimento che si è tolto di dosso un momento prima.
È possibile che il pittore di questo vaso del quarto secolo a.C. si sia ispirato ad una più antica rappresentazione, in cui Giasone in forma umana rappresentava la pioggia che cade sui campi e cadendo svuota, sgonfia e fa morire il Vello d’Oro, sua forma animale che simbolizza le nuvole temporalesche. Egli terrebbe perciò in mano le nuvole ormai scaricate. Il suo cappello rotondo rappresenterebbe la luna piena da cui è stato generato, il mantello la volta celeste e la sua lancia i fulmini del temporale.
Ma c’è qualche testo antico che appoggia questa versione di Giasone/pioggia?
Io direi proprio di sì. Nella Teogonia di Esiodo, infatti, è scritto che Giasone si unì alla dea Demetra in un campo tre volte arato e dalla loro unione nacque Pluto, la Ricchezza (Hes. Th. 969). Se Demetra, come si credeva allora (VIII secolo a.C.), era una dea della terra, il campo tre volte arato (cioè consacrato dalla luna) rappresentava la terra e il corpo stesso di Demetra, Pluto rappresentava l’abbondanza dei frutti dei campi e Giasone non poteva che rappresentare la Pioggia che penetra nelle zolle della terra e le feconda. E cioè terra+acqua= frutti dei campi.
Se invece (come credo che intendessero in origine i devoti micenei di Ghe-meter) la dea Terra-madre Demetra era la luna (la terra che è sospesa), allora il “campo tre volte arato” era il cielo che possiede il sacro numero tre e Giasone era un dio Acqua che si unisce a Demetra-luna per generare le stelle, i frutti dorati che costituiscono la Ricchezza (Pluto) del Cielo.
Il mito ripreso da Esiodo, insomma, potrebbe essere il residuo del mito matriarcale più antico in cui Giasone, figlio della vecchia luna Medea, rappresentava l’acqua da lei generata, che all’inizio appare come nuvole temporalesche ma poi si trasforma in pioggia e, penetrando nel grembo della nuova luna di nome Demetra in un divino matrimonio, la feconda e le permette di generare i frutti del cielo (stelle). Nell’intendimento dei contemporanei di Esiodo, invece, Demetra rappresentava probabilmente la Terra, Giasone sempre la Pioggia e il campo era la terra dei devoti che l’avevano consacrata con il numero tre; alla fine il risultato doveva essere le spighe di grano del loro raccolto.
Un mito, quello miceneo, non giunto fino a noi, in cui le epifanie animali dei due antichi dèi erano: i Serpenti per Medea e il Montone per Giasone.
C’è anche un’iconografia molto interessante che collega il Montone con la spiga di grano, simbolo di fertilità o addirittura di Demetra: in alcune raffigurazioni delle dracme in bronzo di Antonino Pio della zecca di Alessandria del 144-145 d.C. e in una corniola con testa di ariete (fig.55) intagliata del I-III sec. d.C. (conservati a Berlino, Staatliche Museen, Munzkabinett), il montone appare infatti con una spiga di grano in bocca, che ricorda da vicino il mito esiodeo di Pluto figlia di Giasone.
Bene, ma dov’era la grotta di Macride?
Ho dapprima considerato la possibilità che la grotta di Macride si trovasse a Corfù e fosse la affascinante grotta marina che si trova alla base Sud della roccia della Panagìa Paleokastritsa, perché a pochi chilometri si trova un villaggio di nome Makràdes; ma già sono stati fatti scavi in quella grotta e non si è trovato alcun indizio che lì ci fosse un culto antico.
Poi, considerando che alcuni ritrovamenti dell’età del Bronzo (secondo millennio a.C.) erano avvenuti in un’altra località corfiota, a Èrmones, ho cercato lì una grotta con prove di un culto lunare, ma anche questo non mi ha dato risultati.
Successivamente ho cercato l’ubicazione della grotta di Macride nella misteriosa “spilià” (=grotta) che doveva esistere nel quartiere della città di Corfù chiamato ancora oggi “Spilià”, ma nessun corfiota ha saputo indicarmela. Esiste in questa zona, a circa venti metri d’altezza nella parete Nord-est dell’altura del Neo Frourio (Nuova Fortezza), una grotta trasformata in chiesa ortodossa, denominata “spilià” e dedicata a S. Nicola, senza però ritrovamenti archeologici.
Ma poi ho capito. La grotta di Macride non deve essere cercata in terra, ma in cielo, dove avviene la creazione da parte della Luna dell’acqua delle nuvole temporalesche e forse la chiesetta della Megalomàta, così difficile da scavare per la sua posizione, insiste sul sito di un antico santuario della Signora del Grande/Lontano Occhio, cioè della luna. Μάκρις, Màkris (Macride) doveva significare La Grande oppure La Lontana o ancora l’Alta, da μακρός, makròs (grande, esteso; lontano; alto) mentre Αριστάιος (Aristèo), il nome di suo padre, doveva significare Il Migliore, da αριστός, aristòs (ottimo, il migliore, il più nobile) ed era un epiteto di Zeus (un dio del cielo e delle tempeste) e di Apollo (il dio dall’Arco d’Argento cioè della Falce di Luna). Perciò credo che Macride fosse una dea Luna, che peraltro aveva dato il nome antico all’isola di Eubea, e che suo padre Aristeo non fosse altro che un dio del Cielo. Non dimentichiamoci che il corrispettivo latino di Zeus possedeva a Roma un tempio dedicato a Giove Ottimo Massimo.
E quindi cos’era la grotta di Macride? Era sicuramente la volta celeste notturna, creduta da alcuni adoratori della Grande-dea il soffitto scuro e misterioso in cui Lei abitava, una volta a stalattiti. E le stelle dovevano essere credute i luccichii delle gocce d’acqua attaccate alle stalattiti.
Apollonio, a proposito della “grotta” di Macride, scrive: “E ancor oggi si dà il nome di Medea a quella grotta” (Ap. 1153).
Probabilmente il culto della Luna con il nome di Medea è stato importato dai Corinzi che colonizzarono storicamente l’isola di Corfù nel 734 a.C., stabilendosi nella zona della penisola di Kanòni. Prima, c’era stata una colonizzazione dell’isola da parte degli Eubei, gli adoratori della dea-luna Màcride, intorno al 775-750. Ma prima ancora l’isola era abitata da tribù illiriche.
Non conosciamo il nome della dea Luna illirica, perché evidentemente non fu scritto nulla al riguardo. A meno che la scritta “all’Acrìa” non sia una testimonianza di questi popoli e del nome della loro dea.
Ancora oggi nell’isola di Corfù viene onorato un santo cristiano che si chiama Agios Iason, cioè San Giasone. Il suo culto avviene nella chiesa bizantina dei santi Giasone e Sosìpatro nel quartiere corfiota di Anemòmilos. Ma abbiamo anche una splendida icona del diciassettesimo secolo, dipinta su tavola, che lo raffigura insieme a santa Kerkyra e ad un terzo santo, A. Sosìpatros, letteralmente “Padre dei gigli”, un dipinto proveniente dalla chiesa di Nostra Signora Andivouniòtissa, cioè Che sta Davanti alla Montagna, nel quartiere di Spilià (fig. 57).
L’icòna ortodossa di questo santo lo raffigura come è stato rappresentato per milleseicento anni: gli artisti ortodossi dipingono solo quando ispirati da Dio e sono obbligati a rispettare rigorosamente i modelli precedenti. Lo vediamo vestito di una tunica blu scuro e di un mantello rosa chiaro. Mentre Santa Kerkyra qui è vestita alla moda bizantina, San Giasone (come San Sosìpatro) è abbigliato alla moda antica, ci spiegano per significare che il santo cristiano è vissuto negli ultimi anni dell’antichità.
Essendo evidentemente subentrato nel quarto secolo al culto dell’eroe Giasone, ci aspetteremmo di vedergli indossare una pelle di montone dorato, ma questo non avviene. Invece il colore del suo mantello fatto di tessuto è tra il dorato e il rosato e questo potrebbe significare che in quell’epoca l’eroe Giasone aveva già cambiato abbigliamento ed era diventato un eroe del cielo, sì, ma anche della misurazione del tempo. Ecco che allora il suo mantello rosa lo evidenziava come un dio del cielo rosato dell’alba, mentre la sua tunica blu scuro rappresentava le sue competenze sul cielo notturno.
S. Giasone tiene la mano destra sollevata nel gesto di benedire e nella sinistra stringe un rotolo di papiro. Il rotolo era chiaramente un simbolo di sapienza e della facoltà di chi lo stringe di insegnare con la parola o con lo scritto. Quindi indica per S. Giasone la sua attività evangelizzatrice e per il suo antenato eroe Giasone la capacità di insegnare qualcosa di importante. Ma cosa?
Fino a tutto il III secolo a.C. non compare mai l’aspetto della sapienza di Giasone. Questa deve essere comparsa dunque tra il II sec. a.C. e il III d. C., visto che nel quarto secolo avviene la proibizione da parte dell’imperatore Teodosio dei culti non cristiani.
Tutto deve dipendere dunque dalla trasformazione di questo eroe, sposo della Luna, da personificazione delle nuvole temporalesche e della pioggia in quella del cielo che indica l’ora con il suo colore e la sua rotazione.
Con la sua tunica blu scuro, egli si presentava nell’aspetto di cielo stellato che, a seconda della posizione delle sue stelle, segnalava le ore notturne; con il suo mantello delicatamente rosato (sostituendosi al ruolo di Aurora “dalle rosee dita”) egli si mostrava nel suo aspetto di cielo diurno nell’ora del sorgere del sole. Il papiro significava dunque “io ti insegno”. Ma cosa e come poteva insegnare?
Le due dita di S. Giasone alzate nella benedizione sono un gesto essenzialmente tipico di Gesù Cristo. Ma ricordano anche l’amuleto egizio detto “Due Dita” (fig.58) che rappresentava le due dita di Horus che aiutò il dio Osiris a salire la scala che lo condusse in cielo, salvandolo dalla morte definitiva. Chi aveva questo amuleto tra le bende della sua mummia poteva quindi essere “salvato” dalla morte eterna e salire al Paradiso di Osiride.
Allora sembra che l’eroe Giasone dicesse con le sue due dita “guarda…”, “poni i tuoi due occhi…” e, puntandole verso l’alto, terminasse la sua frase con un “…lassù”. Il Giasone di tarda epoca antica ci insegnava a leggere il tempo che passa guardando il cielo.
Del resto, potrebbe anche esserci stata una incertezza se sostituire l’eroe Giasone con san Giasone o con Gesù, poiché in greco il nome di Giasone variava da Iason allo ionico Ieson (Ιέσων). E l’aspetto di questa figura di san Giasone, giovane uomo con la barba, tunica blu e mantello rosa, coincide con quello poi diventato canonico anche nel mondo cattolico per l’aspetto di Gesù.
Concludendo: prima della calata dei Dori, Giasone era stato un dio della pioggia che, annunciandosi con l’arrivo delle nubi temporalesche, simili al vello dorato di un montone, salvava i suoi devoti dalla siccità.
Ma tra il II sec. a.C. e il III d.C., il culto di Giasone, già minato da seicento anni di umiliazione da parte degli dèi olimpi, forse si era trasformato nel culto di un eroe della misurazione del tempo orario, che insegnava a capire i momenti del giorno e della notte con l’osservazione del cielo. Ed era anche un eroe della speranza, perché con le sue dita indicava ai suoi devoti il luogo in cui sarebbero saliti dopo morti e dove lui stesso li avrebbe aiutati a salire, come un dio psicopompo simile ad Ermes. Il suo nome, connesso con Iaso, “salute”, significava anche “salvezza” ed egli forse salvava i suoi devoti defunti dall’annullamento della coscienza dopo la morte, trasportandoli in cielo."
Fernanda Facciolli, dal libro "Il giardino celeste", Amazon, 2020, pagg. 106-120.
Nella mia opera "Il matrimonio di Medea e Giasone nella grotta di Macride" ho voluto rappresentare l'unione mitologica tra la dea Medea e il suo sposo Giasone; lei ha due serpenti, simboli di fertilità, arrotolati attorno alle tempie mentre lui possiede una testa di montone, simbolo poetico della sua essenza di dio della tempesta e della sua identità con lo stesso Vello d'Oro.