Giacinto e Polibea ad Amicle
La tomba di Giacinto e Polibea nel santuario di Apollo ad Amicle
Centro del santuario era il cosiddetto “Trono di Apollo”, un edificio le cui murature erano rivestite di marmi e bassorilievi, vicinissimo alla statua di culto dell’Apollo Amicleo.
Descrivendo la statua, Pausania si dice stupito per la forma originalissima di questa: “La sua grandezza non è stata misurata a quanto so da nessuno, ma, a occhio e croce, potrebbe risultare anche di trenta cubiti (14-15 metri). Non è opera di Baticle, ma è antica e condotta senz’arte, in quanto, a eccezione del volto, delle mani e dei piedi, il resto assomiglia a una colonna di bronzo. Sulla testa la statua porta un elmo e nelle mani tiene la lancia e un arco.
La base della statua ha la forma di un altare e in questo dicono sia sepolto Giacinto. Anzi, nelle Giacinzie, prima del sacrificio ad Apollo sacrificano col rito degli eroi a Giacinto in questo altare attraverso una porta di bronzo che sta sulla sinistra dell’altare stesso.
Sull’altare sono rappresentati anche … Afrodite, Atena e Artemide. Queste portano al cielo Giacinto e Polibea la quale … era la sorella di Giacinto, morta ancor vergine. Questa statua di Giacinto presenta il giovane già con la barba, mentre Nicia figlio di Nicodemo, per indicare l’amore che … Apollo nutriva per lui, lo raffigurò giovanissimo.
Vi è raffigurato anche Eracle mentre viene condotto anch’esso in cielo da Atena e da altri dei. … Per quel che riguarda poi il vento Zefiro e come Giacinto sia stato involontariamente ucciso da Apollo … e quanto dicono circa il suo fiore, tutto ciò potrebbe anche essere andato diversamente, comunque lasciamo che si creda come vuole la leggenda.” (Paus. III, 19, 5-5, traduzione di Salvatore Rizzo).
Quest’ultimo mito a cui si riferisce scetticamente Pausania diceva che Apollo era stato innamorato di un giovinetto bellissimo di nome Giacinto, che però era amato anche dal vento Zefiro. Un giorno, Apollo giocava al lancio del disco con Giacinto ma Zefiro, per gelosia, deviò il disco appena lanciato dal figlio di Leda, che colpì il giovane alla testa e lo uccise. Dal sangue uscito dalla ferita di Giacinto nacque uno splendido fiore e Apollo, con le sue lacrime, incise sui suoi petali le lettere AI, AI, che formavano le parole di dolore dei Greci.
Dunque Pausania dice che la strana statua di Apollo doveva essere alta più o meno 15 metri ed era somigliante ad una colonna di bronzo a cui siano state attaccate delle protesi al posto del volto (una maschera?), delle mani e dei piedi.
Ma che senso avrebbe avuto erigere ad Apollo, dio della bellezza, nel VI secolo a.C., una statua di culto così brutta e mal fatta (“eseguita senz’arte” dice il Periegeta)? La risposta è semplice: sembrava una colonna altissima perché era il tronco ancora eretto di un albero morto, senza più rami e fasciato con lamine di bronzo, sistemato con l’aggiunta di una testa o maschera, mani (o braccia) e piedi, quasi a fare assomigliare la statua a quella della Artemide Efesina, ma chiamandola Apollo, il nuovo titolare del santuario al posto dell’antico eroe Giacinto.
La mia convinzione è che il culto predorico di Giacinto, che sicuramente aveva preceduto il culto di Apollo sulla collina sacra di Amicle, aveva avuto come base il culto di un albero chiamato Giacinto.
Dagli scavi archeologici, oltre che dalla affermazione di Polibio sopracitata, sembra emergere la preesistenza sulla collina di moltissimi alberi, componenti forse un boschetto sacro, e probabilmente uno di questi, il più vecchio e ricco di frutti, era stato individuato come il primo della colonizzazione arborea della collina e divinizzato come Giacinto. Suppongo che questo fosse stato chiamato “padre” o “madre” degli alberi più giovani e che quello a lui più vicino e della stessa età fosse stato chiamato “sua sorella Polibea”.
Quando il nuovo dio olimpico usurpò il santuario del dio-albero ad Amicle, Apollo per le mani dei suoi sacerdoti gli recise tutti i rami (meno, forse, due rami alti per usarli come “braccia” della figura umana gigantesca del nuovo simulacro), forse sperando di non fare morire l’albero sacro. Ma siccome sicuramente questo albero potato così radicalmente morì, i suoi devoti predorici si saranno ribellati violentemente.
A questo punto, per sedare la rivolta, i sacerdoti di Apollo avranno messo in giro il mito che Apollo amava teneramente l’albero Giacinto, ma cercando di potarlo per farlo più forte, oppure giocando, con lui umanizzato, al lancio del disco, lo aveva ucciso involontariamente colpendolo alla testa, anche per colpa di Zefiro, il vento che aveva deviato il tiro del disco stesso.
Quanto agli altri alberi del bosco sacro di Giacinto, compreso l’albero Polibea, i sacerdoti di Apollo avranno dovuto segarli alla base per costruire sopra a loro la terrazza di pietra del nuovo santuario, terrazza la cui esistenza è confermata dagli scavi.
Che ne sarà stato delle radici degli alberi tagliati? Pausania afferma che sotto ai piedi della statua-colonna di Apollo, anziché una base di statua, c’era la Tomba di Giacinto. Ma afferma anche che in seguito alla sua morte, Afrodite, Atena e Artemide presero Giacinto e sua sorella Polibea e li portarono in cielo. Suppongo perciò che la Tomba di Giacinto fosse anche Tomba di Polibea, che era raffigurata nel bassorilievo in atto di ricevere l’apoteosi.
Pausania fa capire che dalla porticina di bronzo posta nel fianco sinistro della tomba si poteva entrare, evidentemente a vedere le “ossa” di Giacinto ivi sepolte. Lui però, nonostante la sua curiosità di studioso delle religioni che lo portò a farsi iniziare a religioni misteriche e a culti segreti, non scese a vedere quello che c’era sotto. Ne deduco che glielo impedirono perché questo avrebbe svelato la vera identità della statua-colonna e di Giacinto stesso.
Secondo me l’albero morto che costituiva la struttura portante della statua dell’Apollo amicleo non avrebbe potuto stare in piedi se non avesse avuto ancora le radici, ben affondate nella terra e nascoste dalla cosiddetta “Tomba”.
Inoltre la tomba doveva nascondere anche i resti, cioè le radici, dell’albero Polibea, che evidentemente era stato tagliato come tutti gli altri alberi del santuario predorico, ma non era stato sradicato, sempre per l’opposizione dei devoti di Giacinto.
Infine, i sacerdoti di Apollo dovevano fare qualcos’altro per farsi perdonare dello sradicamento del bosco sacro, del taglio dell’antico albero Polibea e della fatale potatura dell’albero Giacinto: e così li dichiararono assunti in Cielo, insieme agli Dei.
Se poi analizziamo il nome Polibea, (forse al nominativo Πολύβοια ma ne è attestato solo l’accusativo Πολύβοιαν), pare essere il femminile dell’aggettivo πολύβοιος-α-ον che significa «ricco di bovini» (polis, πολύς = molti ; bous, βούς = bue, vacca) e potrebbe essere l’attributo della dea predorica del cielo notturno che, gremito di stelle, sembra una terra oscura piena di bovini dalle corna bianche. Come se l’albero Polibea, prima dell’arrivo degli Olimpi, avesse portato il nome della dea del Cielo locale, una altissima e irraggiungibile terra blu ricca di armenti, dove gli abitanti di Amicle speravano di salire dopo la morte.
Ma forse il vero significato del nome è un altro. Bous (βούς), infatti, potrebbe essere la radice storica del termine boiòn (βοιόν-ού) usato da Elio Erodiano con il significato di «ciclo di cinquanta anni». L’antica parola greca bous, bovino, insomma, avrebbe potuto originare una unità di misura del tempo; la durata di vita di un bovino, venti-venticinque anni, potrebbe essere stata usata per connotare l’animale da allevamento più prezioso e poi raddoppiata per sottolinearne la ricchezza e la sacralità, dato che «cinquanta» era un numero sacro. Chiamare allora « Molti cicli di Cinquant’anni» una antica pianta sacra poteva essere adeguato ad uno degli alberi più vecchi e onorati del bosco sacro di Amicle.
Anche il significato di Giacinto è oscuro ma interessante.
Iàkinthos, Υάκινθος, sembra voler dire chiaramente “giacinto”, il fiore blu scuro, ma la parola greca iàkinthos significa anche « stoffa del colore del giacinto» ed era il nome di una pietra preziosa di colore blu scuro.
In tempi predorici la gente di Laconia probabilmente credeva che le stelle fossero diamanti o perle, cuciti ad una enorme tela blu notte tessuta dalla loro Dea Tessitrice (Penelope, Elena, Artemide, Atena, Aracne, ecc.).
L’Eroe Giacinto assunto in cielo, dunque, probabilmente era sempre stato il cielo notturno stesso, adorato come dio celeste prima dell’arrivo degli dei olimpici che dichiararono se stessi gli unici dei celesti.
Ma egli doveva anche essere stato l’incarnazione (se così si può dire) terrena del dio Giacinto del cielo: uno splendido albero sacro, figlio del dio del cielo, suo padre, che lo disseta con la pioggia.
Il mito infatti ci racconta che l’umano Giacinto (nonostante fosse morto giovinetto per colpa di quel lancio del disco di Apollo) egli aveva ben quattro figlie: Antide, Eglide, Littea e Ortea, che da Sparta giunsero ad Atene ai tempi in cui Androgeo, il figlio di Minosse, era stato ucciso dagli Ateniesi e perciò rischiarono di essere sacrificate a Persefone, sulla tomba del Ciclope Geresto, come espiazione del delitto (Diodoro Siculo, IV 61). Se davvero Giacinto fosse stato un giovanissimo amante di Apollo come sostenevano gli adoratori di Zeus, non avrebbe potuto avere generato delle figlie. Se invece, come sospetto io, fosse stato l’albero sacro a cui era dedicato il santuario di Amicle in tempi predorici, avrebbe avuto molte figlie e molti figli, i suoi frutti sacri da donare agli adoratori. Ecco che allora le figlie il cui nome è pervenuto fino a noi avrebbero potuto essere quei quattro frutti sacri prelevati da devoti attici dall’albero di Amicle e portati religiosamente in un tempio ateniese, forse quello di Persefone o forse quello del Ciclope Geresto. E infatti la statua o figura di bassorilievo scolpita sulla tomba di Giacinto, ad Amicle, lo raffigura barbuto, simbolo quindi dello spirito di un antico albero, padre di numerosi figli e figlie frutto.
Ho anche rappresentato il ceppo rimasto dell’albero Polibea, che suppongo fosse sepolto sempre sotto alla base-tomba, con una enorme mano femminile troncata al polso. La mano di Polibea intreccia le dita a quelle del fratello, in un gesto di estremo saluto, mentre tre piccole figure umane rappresentano i devoti del culto degli alberi, mentre cercano di onorare comunque i loro Eroi sepolti.
Fernanda Facciolli, 28 Dicembre 2020