Demetra Melena di Figalia - Arte e mitologia

Fernanda Facciolli
Segno, colore e mito
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Demetra Melena di Figalia
Tra le montagne del Peloponneso, in mezzo ai boschi di Figalia, nella selvaggia e misteriosa Arcadia, esisteva ancora nel secondo secolo d.C. un oscuro antro, una grotta sacra nella quale da tempo immemorabile veniva adorata una dea dalla testa di cavalla.
Pausania, il viaggiatore erudito che ci ha lasciato la “Guida della Grecia”, scrive di essersi spinto fin lassù appositamente per vedere la misteriosa statua (probabilmente descitta in un trattato sull’arte da lui letto ma oggi scomparso).
Il periegeta scrive che a trenta stadi (Km. 5,5) dal villaggio di Figalia, sul monte Elaio (allora “Monte di Elio” ma oggi contrassegnato dalla chiesetta di S. Elìa), si trovava la grotta sacra a Demetra Melena. Melena significava Nera.
Secondo un mito classico a noi ben noto e ripreso anche da Pausania (Paus. VIII 25, 3-5), una volta il dio Posidone, invaghitosi di Demetra, si diede a inseguirla e lei, per sfuggire all’amplesso, si trasformò in cavalla e si nascose tra i cavalli di un certo Onceo a Telpusa (altra località arcade non molto distante da Figalia). Allora Posidone si trasformò a sua volta in stallone e così riuscì a unirsi a lei.
Pausania aggiunge che secondo la religione di Telpusa dall’unione nacquero la dea chiamata Signora e il cavallo Arione, ma che secondo quella di Figalia nacque solo la dea chiamata Signora.
In seguito a ciò, sempre secondo i Figalei, adirata per la violenza subita e anche per il precedente ratto di sua figlia Persefone, Demetra si vestì di nero e, giunta in quest’antro, si nascose dal mondo. Allora le piante e i prodotti del suolo deperirono, ma un giorno il dio dei boschi Pan la vide, ne informò Zeus e questi mandò a Demetra le Moire per convincerla a desistere dal suo sdegno.
Demetra si lasciò convincere e la vita tornò sulla terra. Allora i Figalei, per ringraziarla, le dedicarono quest’antro e le innalzarono una statua di legno.
 
Così prosegue Pausania: “La loro statua era fatta così: la dea sedeva su un masso e in tutto il resto del corpo, tranne che nella testa, aveva aspetto di donna, mentre la testa e la chioma erano di cavalla, e sopra la testa spuntavano figure di serpenti e di altre bestie. Vestiva un chitone lungo fino ai piedi e aveva nella mano destra un delfino e nell’altra una colomba. La ragione per cui si fecero fare così la statua non sfugge a chi è intelligente e di buona memoria. Dicono di averla chiamata Melena perché la dea aveva una veste nera.” (Paus. VIII 42, 4)
Il Periegeta prosegue raccontando che a un certo punto il santuario in grotta era andato a fuoco, la statua di legno distrutta e i Figalei avevano smesso di frequentare il santuario. Ma una grave carestia si abbattè allora sulle terre circostanti e gli abitanti del villaggio arcade consultarono la Pizia di Delfi per sapere come rimediare.
La Pizia rispose allora con un oracolo in versi (com’era sua abitudine) che recitava così: ”Arcadi Azani, mangiatori di ghiande, che Figalia / abitaste, occulto antro di Deo che generò un cavallo, / … / Deo ti ha fatto cessare di essere pastore e Deo pastori / di nuovo vi rese  … / privata che fu dei privilegi degli avi e degli antichi onori. / E ben presto vi farà mangiatori l’uno dell’altro e divoratori di figli, / se non placherete l’ira sua con pubbliche libazioni / e se non adornerete di divini onori il recesso della grotta.” (Paus. VIII 42, 6)
Così, continua Pausania, i Figalei ripresero a onorare Demetra e commissionarono allo scultore Onata di Egina una nuova statua di culto;
costui, avendo trovato un disegno o una copia dell’antico simulacro ligneo, fece una statua di bronzo simile a quello.
Pausania era un appassionato d’arte ed era anche iniziato ai misteri Eleusini di Demetra e Core e forse per questo afferma di essersi spinto così in periferia, a Figalia, pur di onorare una Demetra così antica e per vedere la statua di Onata con la testa di cavalla. Afferma che, secondo l’uso locale, offrì alla dea solo frutti degli alberi da coltura, e inoltre grappoli d’uva, favi delle api e lane non lavorate e intrise del loro grasso naturale. Deposte le offerte sull’altare che si ergeva davanti alla grotta, la sacerdotessa, aiutata da uno dei tre “sacrificatori” laici, cosparse d’olio le offerte di Pausania.
Egli prosegue: “Attorno all’antro c’è un boschetto di querce e dell’acqua fresca sgorga dal suolo. La statua fatta da Onata ai tempi miei non esisteva e la maggior parte della gente non sapeva se i Figalei l’avevano mai posseduta. Ma la persona più vecchia fra quelli con i quali conversammo ci diceva che tre generazioni prima della sua delle pietre, staccatesi dalla volta dell’antro, s’erano abbattute sulla statua; da queste la statua fu ridotta in pezzi e completamente distrutta. E in verità dalla volta potevamo ancora vedere la parte da dove si erano staccate le pietre.” (Paus. VIII 42, 12-13)
“L’antro di Demetra Melena , variamente identificato con caverne a sud o a sud-ovest di Figalia, è forse da identificare con una grotta nella località Paliòkastro” (Salvatore Rizzo, Pausania viaggio in Grecia VIII, nota 1 del cap. 42).
 
Ma Demetra era associata a una figura di donna con testa equina anche a Licosura, un’altra città arcade.
Qui, infatti, è stato portato alla luce un tempio arcaico dedicato a Demetra e a sua figlia Dèspina, cioè La Signora. Vi è stato trovato tra l’altro un grosso frammento di mantello, appartenuto a una delle statue di culto, forse a quella di Despina, ora in mostra nel museo Archeologico Nazionale di Atene. Tra le varie figure scolpite in bassorilievo sul mantello, spicca una figura di donna con testa di cavalla, vestita con un lungo chitone, che potrebbe essere la figura della madre della Signora, cioè Demetra.
Su altri frammenti del mantello compaiono serpenti e delfini, le figure che erano associate alla statua figalea di Demetra Melena.
 
La notizia che, tre generazioni prima della visita di Pausania (vissuto nel secondo secolo d.C.), esisteva in Grecia una statua di culto con corpo umano e testa di cavalla ci sorprende, perché le divinità rappresentate in forma umana ma con testa animale e giunte fino a noi sono numerosissime nell’antico Egitto ma quasi inesistenti nell’antica Grecia.
Tuttavia quelle di Figalia e di Licosura non sono le uniche figure ibride uomo/cavallo attestate in Ellade.
Esistevano infatti degli esseri mitologici considerati selvaggi e senza etica chiamati centauri. Nel mito classico erano per la maggior parte disprezzabili, eccetto il Centauro Chirone, che era un sapiente e aveva allevato l’eroe Achille.
Tra le testimonianze figurate più antiche di questi esseri mitologici è la statua fittile altogeometrica (X sec. a.C.) di centauro, trovata a Lefkandi ed esposta nel Museo di Eretria in Eubea.
La scultura in terracotta è alta almeno cinquanta centimetri e sicuramente rappresentava una divinità predorica, forse proprio Posidone Ippio.
Anche se le parti umano/cavallo sono invertite rispetto a Demetra Cavalla, questa divinità sembra proprio essere un’interpretazione minoica della luna. La luna infatti ci mostra per molte notti un volto umano (luna piena o calante), ma per altre ci mostra una forma curva, simile alla coda di un equide (prime falci di luna crescente). Inoltre, il centauro di Lefkandi porta dipinta su tutto il petto una rete rossa, simbolo della rete celeste che regge le lampade-stelle ed in cui egli abita. Per il significato del motivo della rete, dipinta sulla ceramica di tutto il mondo ellenico ed egizio, v. “Il giardino Celeste” pagg. 53-54 e 71, figg. 27, 37 e 61.
 
La venerazione di una figura con corpo umano e testa di cavallo è persistita attraverso i cambi di credenze religiose, passando dalla religione predorica arcade a quella cristiana della Beozia.
In una chiesetta medio-bizantina della Beozia (XII-XIII sec.), di cui preferisco non fornire le coordinate, ho visto e fotografato l’immagine di un santo cristiano con muso di cavallo, accompagnato dal suo nome: Agios Crisìroros, una corruzione o una voluta manomissione di Crisippos, cioè Cavallo d’Oro. Questo ci dice che al posto della chiesetta cristiana prima esisteva un santuario di un eroe o dio locale di nome Crisippo. Questo poteva essere stato una divinità originariamente in forma equina, come il cavallo Arione o il cavallo Pegaso, poi trasformato in forme ibride come gli dei egiziani e la dea Deò. Probabilmente Cavallo d’Oro era un epiteto di un dio della falce lunare.
 
Ma esaminiamo meglio come doveva apparire l’originaria statua in legno di Demetra Nera a Figalia.
La Dea stava seduta su di un masso, era vestita di nero e sopra alla sua testa di cavalla spuntavano “serpenti” (drakonton, δρακόντων) e altre bestie. Nelle mani teneva un delfino e una colomba.
Il Periegeta dice che il significato di tutto ciò dovrebbe esserci chiaro, come era chiaro a lui. E molto probabilmente lui interpretava, come la maggioranza degli studiosi attuali, la veste nera di Demetra come segno della sua essenza di divinità degli inferi, il delfino come simbolo del mare su cui regnava l’amante Posidone e la colomba come simbolo di lei stessa e delle altre dee olimpiche come Era e Afrodite. Tutte osservazioni più che giuste per una statua olimpica di Demetra, una religione dorica, che riteneva che le anime dei morti abitassero negli inferi posti sotto terra.
Ma la Demetra di Figalia non era una dea olimpica, come dimostra il fatto che non era preposto al santuario un sacerdote maschio bensì lo era una sacerdotessa. E l’Oltretomba predorico matriarcale non era posto sotto terra, ma in cielo tra le stelle e intorno alla Dea Madre che, seduta sul suo trono, doveva regnare e proteggere le anime dei trapassati. Esiodo, nella sua Teogonia, scrive che “Gaia per primo generò, simile a sé (e quindi anche lei era il Cielo, nota della scrivente), Urano stellato (urano = cielo), che l’avvolgesse tutta d’intorno, che fosse ai beati sede sicura per sempre” (Hes. Theog. 126-128).
Sicuramente alla fine dell’VIII secolo a.C. in quel di Ascra, alle falde del monte Elicona, terra d’origine di Esiodo, l’Aldilà non era creduto sottoterra ma in cielo, tra le stelle. E se Esiodo l’ha scritto nella sua Theogonia, la credenza doveva essere diffusa un po’ in tutta la Grecia, quindi in Arcadia. Ma sicuramente lo era a Calcide, nell’isola di Eubea, dove il poeta di Ascra sostenne una gara poetica con Omero e vinse.
 
La Pizia consultata dai Figalei a proposito della carestia, poi, risponde chiamando la dea Demetra Deò (Δηιώ).
La dea Deò compare per la prima volta scritta in Omero 2.47 come Δηώ. Negli Inni di Callimaco è invocata come attributo di Demetra, donatrice di frutti. La cosa interessante è che δήω era il verbo greco «bruciare» e quindi era il nome di una dea che brucia, arde, splende come il sole o la luna o la volta celeste stellata. Dato che è invocata come dea della fertilità e la fertilità dipende soprattutto dalla pioggia era quindi una dea della luna che dona la pioggia e che risiede nel polo celeste, in trono. Il cielo notturno sembra una terra alta che arde come la superfice di un bracere.
Ma il cielo poteva anche sembrare, a gente che abitava sulle rive del mare o di un lago, come dell’acqua che brilla dei riflessi delle onde.
Anzi, poichè nei poemi omerici ed esiodei si parla di un dio-fiume Oceano alle origini della nascita degli dei, credo che il cielo stellato che si sposta perennemente da Est ad Ovest come un fiume (e da cui cade acqua dolce e non salata) fosse chiamato Oceano, letteralmente «o-cianòs», ό (θεός) κυάνος, «Il (dio) Azzurro»,.
Infatti, Esiodo scrive che «Gaia, con Urano giacendo, generò Oceano dai gorghi profondi» (Hes. Theog. 133). Quindi, se Oceano era figlio di Urano («Cielo») e di Gaia (simile al Cielo), anche lui doveva essere il Cielo, probabilmente nella religione successiva a quella di Gaia e Urano. Suo fratello, poi, era Crono (Hes. Theog. 137), un altro dio Cielo, che nella religione successiva sarà detronizzato da suo figlio Zeus. Come credevano nella religione olimpica arcaica e classica, Zeus era il principale dio del Cielo.
Per dimostrarlo è anche importante ricordare il mito dell’unione di Demetra con Posidone, il suo paredro, che in Telpusa e in tutta l’Arcadia era chiamato Posidone Ippio, cioè Posidone Cavallo, e che si unì a Demetra Cavalla sotto forma di stallone. Posidone era una divinità micenea attestata nelle tavolette di Pilo in «lineare B» e al tempo (XIV sec. a.C.) egli doveva essere una divinità delle acque dolci, come attesta l’antico mito di Posidone e Amimone.
Amimone era, secondo la versione giunta fino a noi, una sacerdotessa di Argo cercatrice di acqua e, non avendola trovata nemmeno a sera, piangeva disperata. Il dio Posidone in quel mentre passava di là e, innamoratosi di lei, per aiutarla colpì la roccia con il suo tridente e dai tre piccoli fori fece sgorgare tre piccole fonti di acqua dolce, cosicchè la ninfa Amimone potè riempire il suo vaso (v. il mio libro «Il giardino celeste», pagg. 44-48).
E poichè il miceneo Posidone era quello tra gli dei di Pilo che riceveva più offerte, più di Zeus, se ne deduce che era lui il dio principale della Pilo micenea e quindi il dio del cielo (mentre probabilmente nel XIV secolo a.C. Zeus era «solo» il dio dei fulmini e dei temporali).
Quindi la dea «Che Arde» di Figalia doveva essere in età preistorica la divinizzata volta celeste notturna, che fu poi associata al miceneo dio del cielo e delle acque dolci Posidone.
 
Ma torniamo alla primitiva statua di legno di Deò andata bruciata: la dea aveva testa di cavalla perchè il cavallo è sempre stato associato all’acqua e alle onde (ancora oggi noi chiamiamo «cavalloni» le grosse onde marine e gli inglesi chiamano «White horses» le onde sia dolci che salate) e lei era una dea della fertilità che viene dal cielo. I Dioscuri, Eroi protettori dei naviganti, venivano spesso raffigurati come cavalieri associati a cavalli.
Ma era anche la dea che, pur regnando abitualmente seduta sul suo trono posto al polo, spesso di notte scendeva più vicina alla terra e mostrava agli uomini la sua testa umana dall’espressione preoccupata, cioè la faccia della luna piena.
Ma questa testa a volte assumeva la forma di una testa di giumenta con la criniera dorata, quando la dea si mostrava nella sua forma di falce di luna.
Poi, quelli che generalmente si traducono con «dragoni» in realtà erano serpenti, perchè drakòn (δρακόν) significa “serpente”; questi, come dimostrano le loro numerosissime rappresentazioni, attorcigliati alle braccia della dea cretese minoica, alla verga di Asclepio e al caduceo di Ermes, erano simboli dei corsi d’acqua e della salute che deriva dalle acque fluviali. Quindi la statua di Deò aveva serpenti simboli di fertilità sopra alla testa, proprio come la Gorgone Medusa che, come spiego nel mio libro “Il giardino celeste”, era un’antica dea Luna.
Il delfino che Deò teneva nella mano destra era attributo di Posidone che, come abbiamo visto, era originariamente un dio delle acque dolci e per questo Posidone e il delfino erano stati rappresentati sulla sommità di numerose fontane (di acqua dolce!) e quindi il cetaceo era passato, per via della loro unione, da Posidone a Deò, un’altra dea delle acque dolci.
In un piatto rodio del VI secolo a.C. trovato nell’isola di Santorini e ivi esposto nel Museo Archeologico di Fira, si vede chiaramente un pesce o un delfino che nuota tra le stelle (v. “Il giardino celeste”, pag.161) e che non può altro che essere simbolo di una divinità delle acque che abita in cielo.
La colomba è un uccello e tutte le dee celesti ne avevano uno per simbolo, perché il cielo sa “volare” sospeso sopra la terra: Artemide aveva l’aquila, poi rubatale da Zeus, Era aveva la colomba e il pavone, Atena possedeva la civetta, Afrodite la colomba. Quindi la colomba nella mano sinistra connota Deò come dea celeste perché il cielo è lo spazio dei volatili.
La dea dell’antica statua lignea era seduta su di una roccia e in questo assomiglia alle numerose rappresentazioni della dea preistorica, seduta sulla montagna, degli anelli d’oro minoici e delle statuine in avorio micenee esposte al Museo Archeologico di Atene. Portava un chitone nero, non perché fosse una dea ctonia, ma perché nero è il colore del cielo notturno. Era quindi una dea che donava acqua dolce ai suoi devoti quando questi erano vivi e quando morivano li accoglieva in un Oltretomba che si trovava in cielo, tra le stelle.
Quando la statua matriarcale di Deò andò a fuoco, i Figalei sospesero il culto di questa dea preistorica, forse ostacolati o forse influenzati dalla nuova religione ateniese, che ormai bussava alle porte dei loro santuari di montagna. Probabilmente elevarono in altro luogo un tempio alla dea olimpica Demetra che sembrava poter essere sincretizzata con Deò. Ma poiché nonostante questo giunse una carestia e la Pizia interrogata disse che dovevano ripristinare il culto di Deò, essi restaurarono l’antro sacro e fecero fondere una nuova statua di Deò che chiamarono Demetra Melena, cioè Demetra, sì, ma nera come la volta notturna e con le stesse forme e gli stessi attributi dell’antica Deò.
Nello stesso periodo, le credenze doriche patriarcali di un Oltretomba oscuro e tristissimo situato sottoterra si sostituirono alle antiche fedi matriarcali in un Oltretomba meraviglioso, posto tra le stelle. Quindi tutte le divinità del cielo, signore dell’Aldilà, diventarono divinità ctonie, sotterranee. Ai tempi di Pausania si parlava in Arcadia di un Posidone Infero, ma esisteva in tutta la Grecia uno Zeus Ctonio e Demetra, originariamente dea del cielo perché figlia di Crono e nipote di Urano (“Cielo”), divenne dea ctonia come sua figlia Core (ora detta Persefone) o più abitualmente Dea della terra grassa e fertile.
 
Nel resto dell’Arcadia, in mezzo alle montagne impervie del centro Peloponneso, Demetra fu “imposta” dai devoti della famiglia olimpica e sovrapposta ad altre antiche dee del cielo locali, che conservarono nomi e rappresentazioni decisamente originali.
Nella sopracitata Telpusa, circolava una moneta locale con la rappresentazione del cavallo Arione, che appare senza ali ma sospeso sopra a un cerchietto con un puntino centrale, come mostra l’illustrazione n. 46 del libro “ S. Rizzo, Pausania, Viaggio in Grecia VIII”, BUR. Secondo me, il cavallo figlio di Deò e di Posidone rappresenta l’acqua del cielo, perché il cerchietto sotto la sua pancia è simbolo del polo, intorno al quale ruotano le stelle in cerchio. Inoltre, Arione è nome che contiene la radice “ar-”che significava “sopra”, “in alto” e che è adeguata ad un Eroe, dio o entità che vive in alto, in cielo, e potrebbe essere stato simbolo dell’acqua delle nuvole, figlia dei due dei celesti Deò e Posidone.
 
Invece La Signora (Δέσποινα), l’altra figlia di Deò, aveva un tempio a Licosura, in Arcadia, in cui compariva seduta in trono accanto alla madre Demetra e affiancata in piedi da Artemide e dall’eroe Anito. Qui “Demetra porta nella destra una fiaccola e tiene la sinistra appoggiata sulla spalla della Signora. La Signora ha sulle ginocchia uno scettro e la cosiddetta cista, che tiene stretta con la destra” (Paus. VIII 37, 4).
Lo scettro ci dice che secondo i devoti della Signora di Licosura, era lei la Regina del Cielo, mentre Demetra, seduta in trono ma senza scettro, era un’antica Regina che aveva abdicato e ceduto il regno alla figlia (era diventata la “Regina Madre”).
Artemide era raffigurata con una torcia in mano e sia lei che Demetra ci parlavano dunque della notte (perché le torce si accendono di notte) e di luci che spiccano nel buio, come sono la luna e le stelle. La Signora portava il famoso mantello ricamato con le figure di divinità notturne tra cui quella a testa di cavalla, e questo mantello in origine doveva essere dipinto di azzurro cupo mentre le figure dovevano essere dipinte in giallo, per rappresentare la volta stellata; infine, teneva la cista degli oggetti misterici su cui si basavano i riti mai rivelati dagli iniziati. La Signora dunque era la dea principale di Licosura, che sedeva nel buio trono del polo, invisibile agli occhi degli uomini, ma la Madre era visibile, grazie anche alla luce della fiaccola, nella figura della luna e Artemide anche era visibile, sempre grazie alla luce della o delle fiaccole (forse sette) ed era visibile nella sua forma di Orsa (v. Artemide Brauronia).
Licosura era la città più antica della Grecia, secondo Pausania (VIII 38, 1) e accanto al santuario della Signora si ergeva il monte Liceo (del Lupo o della Lupa) detto anche Olimpo e Sacra Cima (Paus. VIII 38, 2).
Questo significa che i culti di Licosura erano culti predorici tra i più antichi della Grecia e che in origine una dea Lupa (come a Roma) o un dio Lupo (come il Lico di Tebe, Beozia) avevano regnato sulla montagna sacra di Licosura, prima che Zeus arrivasse a fregiarsi del nome Lico (v. Zeus Likeos).
 
A Telpusa, invece, c’era un santuario di Demetra Eleusina, che conteneva come statua di culto un gruppo scultoreo con le figure di Demetra, “della figlia” e di Dioniso (Paus. VIII 25, 3). Ma se nell’antica religione arcade Demetra era invece Deò, porle accanto Dioniso insieme alla figlia (Core o Persefone o Signora) era come dire che anche Dioniso era considerato suo figlio e che il suo nome (Dio-niso) non significava “Albero di Zeus” bensì “Albero di Deò” (nisa=albero secondo Ferecide). Qui sembra che ci sia traccia di un culto degli alberi, in cui la vite era protagonista come dono di Demetra agli uomini (qui per il culto degli alberi).
Sempre a Telpusa, c’era un santuario di Demetra Erinni, detto Demetra in Onceo, (Paus. VIII 25, 4). Pausania scrive che, secondo i locali, Erinni significava “Adirata”, essendo stata offesa dalla violenza di Posidone (Paus. VIII 25, 6), e questo è il significato dato anche dal vocabolario di Montanari.
Ma secondo me l’originaria dea arcade regnante in cielo non poteva avere avuto un nome e una storia così mortificante, doveva avere avuto invece un nome glorioso. Ho perciò cercato di ricostruire l’etimo originale.
Erinni (Ερινύς) doveva significare in origine “Figlia delle Altezze” (er-, ar- = alto; inis, ίνις = figlio o figlia) e quindi inizialmente doveva essere l’arcade Signora figlia di Deò. Ma ben presto la dea Erinni si sdoppiò nelle due Erinni, matriarcali vendicatrici dei delitti dei maschi violenti contro le madri (infatti il nome diventò sinonimo di “adirate” a causa dei delitti e “vendicatrici”). Le due Erinni dovevano quindi essere la coppia divina predorica Madre e Figlia, che puniva i delitti di matricidio, dato che con l’avvento del regime legislativo patriarcale questo non veniva più punito o non adeguatamente e l’unico deterrente valido per prevenire questi delitti era la religione delle Dee Vendicatrici.
Nella tragedia di Euripide “Le Eumenidi”, infatti, opera del patriarcale secolo V a.C., si assiste al dibattito in tribunale ad Atene se sia giusto punire Oreste, assassino della madre Clitennestra, o assolverlo. Le Erinni, qui diventate addirittura più di due, sostengono il dovere dei giudici di condannarlo, ma Posidone e (quel che è più grave) Atena (la patriarcale Atena) chiedono a gran voce l’assoluzione. Nella tragedia di Euripide, i giudici assolvono il matricida e cambiano il nome alle dee Erinni: le ribattezzano Eumenidi (“Le Pietose”) affinchè non tormentino più gli uomini colpevoli ma li perdonino.
 
Nel mio dipinto “Demetra Cavalla in trono” rappresento la predorica dea Demetra Melena di Figalia, seduta in trono al centro del cielo. Le ho disegnato il sedile in uno stile ispirato al tavolino minoico per le offerte, che ha lasciato un vuoto nella cenere del vulcano di Tera caduta ad Acrotiri (Santorini). Questo vuoto è stato riempito di gesso dagli scopritori e oggi è esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Atene.

Fernanda Facciolli, 4/1/2021
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